EDITORIALE DELLA FONDAZIONE
Roma è una continua scoperta con i suoi tanti monumenti, sculture, palazzi e musei ricchi di storia,
ma pensare che esistano anche altre parti di mondo all’interno della nostra bella città, è ancora più
sbalorditivo.
Sapete che ci sta per esempio una Piccola Londra?
La Piccola Londra è quasi un mito a Roma perché in pochi sanno esattamente dove si trovi.
Ma prima di tutto: che cos’è la Piccola Londra?
Si tratta di una via abbastanza breve che per la sua architettura ricorda le tipiche case londinesi, a due
piani con le scalette e il portone di ingresso su strada: la verità è che si tratta di una via insolita e
diversa dal resto di Roma.
Per trovarla bisogna andare nel Quartiere Flaminio, esattamente a Viale del Vignola: all’entrata e
all’uscita c’è un cartello che ricorda ai passanti che all’interno non sono gradite persone che si
fermano a fare fotografie e video, anche perché i residenti della via si conoscono da sempre, visto che
le case si tramandano di generazione in generazione.
Tra i palazzoni di Viale del Vignola (altezza civico 50) e quelli di Via Flaminia (altezza civico 287), appare
un vialetto pedonale privato, chiuso da un cancello, il cui nome esattamente è Via Bernardo
Celentano, un pittore napoletano dell’Ottocento: pavimentato con sanpietrini sul quale si ergono 26
villette a schiera dalle facciate colorate e decorate con fregi e graziosi balconcini in stile Art Nouveau
sui quali spiccano verdi piantine, con cancelletti e inferriate, portoni in legno e scalinate in pietra è in
perfetto stile british e ricorda le atmosfere di quartieri londinesi come Notting Hill, Chelsea e Mayfair,
con l’estrema cura estetica, le linee pulite e armoniche.
Il Quartiere della Piccola Londra nasce per volere del sindaco anglo-italiano Ernesto Nathan, lo stesso
già “incontrato” per il Quartiere Coppedè, eletto nel 1909, il cui sogno era quello di portare la capitale
d’Italia al livello delle altre grandi europee.
Nathan fece approvare un piano regolatore secondo il quale le costruzioni non potevano superare i 24
metri di altezza, le villette non potevano andare oltre il secondo piano e dovevano avere cancelletti in
ferro.
Quadrio Pirani, architetto di Jesi che aveva già realizzato quartieri come San Saba e Testaccio, si
entusiasmò della scelta del sindaco Nathan e mise in pratica le indicazioni progettando questa
stradina residenziale destinata inizialmente agli alloggi degli alti funzionari e burocrati delle sedi
politiche e amministrative lì vicino, con colorati edifici liberty d’ispirazione inglese in omaggio alle
origini dell’allora sindaco della città.
Lo stile Old England è noto per la sua estetica pittoresca e nostalgica, spesso associata ad immagini
di villaggi rurali, cottage, case di campagna ed edifici storici.
Tra le caratteristiche principali di questo stile ci sono: l’uso di materiali locali come pietra, mattoni e
legno, tetti spesso ripidi e ricoperti di tegole o ardesia e finestre generalmente con vetri piccoli e
multipli, spesso con cornici in legno.
All’epoca, il Quartiere Flaminio era una delle nuove aree della Capitale, visto che la popolazione stava
aumentando e anche le istituzioni politiche e amministrative della città avevano bisogno di nuovi spazi
urbani.
Il progetto di Pirani si sarebbe dovuto estendere in altre strade, ma purtroppo ciò non accadde, e la
Piccola Londra rimane l’unico angolo di paradiso che isola i residenti dal caos e dal traffico della città
pur rimanendo nel suo centro vitale.
Ma vicino a Via Celentano ci sta un altro piccolo scorcio da scoprire: si tratta di Piazza Perin del Vaga,
una piazza ellittica pedonalizzata.
Sembra di entrare in un teatro con una quinta allineata formata dai palazzi delle case popolari.
La piazza è infatti delimitata dal complesso edilizio Istituto Case Popolari Flaminio II, con al centro il
palazzo principale riconoscibile anche per la targa commemorativa all’ingresso che ricorda l’inizio dei
lavori nel 1925.
Superate le grandi cancellate, si può passeggiare nel classico giardino su cui si affacciano le finestre
degli appartamenti.
Ad adornare la piazza ci sono due fontane di travertino con i delfini, realizzate sicuramente insieme al
complesso intorno al 1926.
Quello che colpisce di queste zone è il diverso stile architettonico che unisce il presente e il passato,
ricordando che qui vicino sorge anche uno dei maggiori poli culturali di Roma, ovvero il MAXXI, il
Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo.
Per rimanere legati al mondo oltremanica, non possiamo non menzionare il Cimitero Acattolico o
Cimitero degli Inglesi, a fianco della Piramide di Caio Cestio.
La sua storia inizia gli albori del 1700: a quei tempi la normativa ecclesiastica proibiva la sepoltura di
persone non cattoliche nelle chiese o nelle terre consacrate.
Per questo motivo i protestanti, come anche le persone di diversa fede, non avevano un luogo di degna
sepoltura.
Solo attorno al 1716 vennero concesse delle terre per la sepoltura degli inglesi protestanti in esilio e
da questo momento in poi l’area compresa tra la Piramide e le Mura Aureliane divenne un cimitero per
gli acattolici.
All’interno del cimitero sono sepolti, tra gli altri, lo scultore svedese Hendrik Christian Andersen,
Antonio Gramsci, uno dei figli di Goethe, il poeta John Keats, lo scultore Richard Wyatt, l’attrice inglese
Belinda Lee e molti altri.
Ma a Roma non ci sta solo un po’ di Inghilterra, se non fossero andati distrutti avremmo avuto anche
un po’ di Olanda con i suoi mulini…
Fino ad un paio di secoli fa il Tevere era pieno di vita: acquaioli, tintori, traghettatori o barcaroli,
pescatori, marinai, fabbricanti di navigli, renaioli, fiumaroli… e tra i tanti mestieri c’era anche quello
del mugnaio.
Sono tanti i dipinti, i disegni e le mappe del passato che riproducono il paesaggio fluviale,
caratterizzato in particolare dai mulini ad acqua, galleggianti, chiamati molini o mole, e della quantità
incredibile possiamo rendercene conto anche dalle tracce rinvenute successivamente al loro
smantellamento.
Nel ricordo di un viaggiatore spagnolo dei primi del Quattrocento, c’è la descrizione di Roma e delle
rive del Tevere che per via dell’alto numero dei mulini sembrava quasi si potessero unire…
Fu intorno alla metà dell’800, a causa delle tante inondazioni del Tevere, che vennero distrutti la
maggior parte dei mulini, anche se avevano una funzione vitale specie per la popolazione.
Il più grande e famoso era la cosiddetta Mola dei Fiorentini, chiamata così dalla Chiesa di San
Giovanni dei Fiorentini, all’inizio di Via Giulia, ma il maggiore affollamento di mulini si registrava nei
pressi dell’Isola Tiberina, tanto che uno dei suoi ponti, il Ponte Cestio, venne ribattezzato
popolarmente “Ponte Ferrato” proprio per le innumerevoli catene di ferro che lo circondavano e che
servivano per agganciare i mulini alla terraferma.
Fin dal II secolo d.C. alcuni mulini, detti Gianicolensi, erano presenti lungo il dorsale del colle del
Gianicolo, che da San Pietro scende ripido verso il Tevere.
Secondo la storia, i mulini erano azionati dall’acqua proveniente dai monti Sabatini (Acqua Traiana)
che l’Imperatore Traiano aveva fatto confluire nella zona.
Quando nel 537 d.C., durante un assedio della città, i Goti di Vitige ordinarono il taglio degli
acquedotti, l’acqua potabile non arrivò più in città, motivo per cui si dovettero fermare tutti i mulini.
Il generale Belisario ebbe allora l’idea di spostare l’attività di molitura sul Tevere, subito a valle di
quello che oggi è Ponte Sisto: da allora e per più di 1.300 anni, i mulini svolsero un ruolo chiave
nell’economia della città, garantendo la farina necessaria a produrre il pane, la risorsa alimentare
essenziale – e talvolta l’unica – di gran parte della popolazione.
Sull’Isola Tiberina era presente un antico granaio, e quindi c’era la necessità di avere dei mulini per
macinare il grano, utile per l’impasto del pane.
Il processo, possibile grazie allo sfruttamento delle correnti d’acqua, era soggetto alla forza fluviale del
Tevere, e, specie nei punti più impetuosi, questi straordinari meccanismi azionavano la ruota dentata
che metteva in moto la mole da macina, in grado di trasformare i chicchi dorati del grano in farina.
Molto nota, in alcuni scritti, la “Mola di Sant’Andrea al Portone delli Hebrei”, in quanto situata in
corrispondenza di una delle 5 porte che chiudevano il Ghetto ebraico, costituito a metà del ‘500 con
Bolla Papale.
Intorno all’800, lungo le sponde del Tevere si potevano contare ben 11 mulini, di due tipologie: i
tradizionali galleggianti e i cosiddetti “terragni”, ovvero quelli collocati su terra ferma.
Questi ultimi erano fatti in muratura, di dimensioni maggiori rispetto a quelli su acqua, e potevano
essere utilizzati anche come fienili, depositi o stalle.
L’ultima mola terrigna conosciuta era situata ai civici 43 e 44 di Via delle Mole di S. Bartolomeo, una
delle strade adiacenti il Tevere che proprio dalla presenza dei mulini prendevano il nome, come Via
della Mola di S. Francesco nell’Isola Tiberina e Via della Mola dei Fiorentini, il già citato e più famoso
tra tutti.
Tornando ai mulini, il loro funzionamento era semplice tanto quanto la loro struttura: ci stavano due
imbarcazioni affiancate, ancorate alla riva con lunghe catene, tra le quali era sospesa una grande
ruota a pale che metteva in azione le macine.
La barca esterna, più piccola, era detta “barchetto”; nella barca più grande, la più vicina alla riva,
erano alloggiate le macine all’interno della caratteristica “casetta”, spesso sormontata da una croce.
In ogni mulino lavoravano quattro persone: oltre al titolare della mola detto “molinaro”, ci stavano due
“caricatori” che trasportavano con animali da soma il grano e la farina, un “servitore” addetto alla
mola e un “garzone” tuttofare.
Ancora nel 1826, i mulini in funzione erano 27, ognuno dei quali macinava quasi cinque tonnellate di
grano al giorno.
Purtroppo, il Tevere era solito straripare periodicamente, tanto da allagare le zone più basse della città:
oltre ai danni ingenti, il fango e la melma dell’acqua che stagnavano provocava anche epidemie.
Non solo: i mulini galleggianti peggioravano la situazione, trasformandosi in una imprevedibile fonte di
pericolo, perché il Tevere in piena spezzava gli ancoraggi dei mulini che, trasportati dalla corrente, si
incastravano tra le arcate dei ponti impedendo all’acqua di defluire oppure travolgevano le
imbarcazioni dell’antico porto fluviale di Ripa Grande o dell’Arsenale Pontificio, vicino a Porta Portese.
A spazzarli via, in senso materiale e figurato, non fu la diffusione delle nuove tecnologie ma proprio
un’alluvione: subito dopo la disastrosa piena del dicembre 1870, durante la quale tre mulini furono
trascinati dalle acque, si optò per la loro definitiva dismissione, mettendo fine alla loro storia
plurisecolare.
I mulini furono parte del paesaggio fluviale per più di 1300 anni, fino alla vigilia dei lavori di arginatura
del fiume e le più antiche tracce furono ritrovate sul ramo sinistro del fiume, sebbene meno sfruttato
di quello destro, per via del ridotto corso acquifero.
Alcuni resti, recuperati presso i piloni del Ponte Neroniano, vicino Castel Sant’Angelo, permisero
addirittura di ricostruirne un modellino in scala.
Oggi, per scoprire ciò che resta degli antichi mulini, andando sull’Isola Tiberina dobbiamo entrare
nella Basilica di San Bartolomeo all’Isola, fondata nel 997 da Ottone III sulle rovine dell’antico Tempio
di Esculapio.
L’ultima cappella a sinistra, in fondo alla navata della chiesa, fu dal 1626 la sede dell’importante e
potente Corporazione Romana Molendinariorum, o Università dei Molinari, nota per i rigidi criteri di
selezione con cui venivano valutate le domande di ammissione degli aspiranti soci.
Le sue decorazioni richiamano e celebrano l’attività dei mugnai romani, restituendoci con affreschi e
incisioni le singolari immagini dei mulini lignei ad acqua che punteggiavano il Tevere.
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nella foto: piccola Londra quariere Flaminio di Roma
Ottobre 2024 © Maria Teresa Protto
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