EDITORIALE DELLA FONDAZIONE
La più grande Piazza di Roma è sicuramente Piazza Vittorio Emanuele II, o più comunemente Piazza
Vittorio, creata dall’architetto Gaetano Koch e intitolata al primo Re d’Italia, tipico esempio della
“cultura umbertina”.
Circondata da palazzi, con un portico che corre tutto intorno al suo perimetro con 280 colonne, fu
concepita come luogo residenziale di gran lusso: gli appartamenti molto grandi erano le residenze dei
“pezzi grossi” che lavoravano nei ministeri lì vicino.
Fu costruita subito dopo l’Unità d’Italia, tra il 1882 ed il 1887, sull’area che acquistò il Comune di
Roma grazie alla convenzione con la Società Mariotti.
Furono effettuati grossi lavori di sbancamento e vennero alla luce le fosse carnarie, memorie
dell’antico cimitero dell’Esquilino, il famoso “campo comune” oppure “scellerato” perché in questo
cimitero venivano sepolti schiavi, malfattori ed assassini.
Oltre alle abitazioni, fu data la massima importanza al giardino, con un anello di platani, cedri del
Libano, magnolie e palme provenienti da Bordighera, dono della Regina Margherita.
Per molti anni fu sede di un importante mercato rionale, che lo portò piano piano al degrado ed
all’abbandono, ma oggi, dopo i recenti lavori di recupero ambientale, si può certamente affermare che
il giardino ha di nuovo riacquistato un aspetto degno della sua storia.
Per la realizzazione della Piazza, vennero fatte sparire chiese, vie e piazze, come per esempio la
famosa Piazza Guglielmo Pepe, dove si svolgevano spettacoli all’aperto e importanti iniziative
popolari: è su questa piazza che si esibì un esordiente Ettore Petrolini, attore, cabarettista, cantante,
autore, specializzato nel genere comico, massimo esponente di quelle forme di spettacolo dette di
teatro minore, termine che identificavano il teatro di varietà, la rivista e l’avanspettacolo: qui Petrolini
recitò alcuni suoi cavalli di battaglia, tra cui i famosi “Salamini”.
Sparì anche Villa Palombara, la residenza che Massimiliano Palombara, marchese di Pietraforte, fece
costruire nel 1653 sul terreno acquistato dal padre Ottone nel 1620 dal duca Alessandro Sforza: della
villa resta soltanto la cosiddetta “Porta Magica”, uno degli ingressi secondari dell’edificio, salvata forse
proprio per il suo carattere di “curiosità” e per le leggende popolari che nel frattempo si erano diffuse
sul suo significato.
La Porta fu collocata nel giardino nel 1890, a ridosso di quel blocco di terra e tufo che testimonia
l’altezza del terreno prima dei lavori di sbancamento della piazza e fu affiancata da due statue gemelle
marmoree con le sembianze grottesche del dio egizio Bes, provenienti dal Tempio di Serapide.
Ma cosa nasconde la Porta Magica?
In origine, la villa del marchese era frequentata da alchimisti, maghi e scienziati che erano alla ricerca
della “pietra filosofale” per la trasformazione dei metalli in oro.
La formula per ottenere la “Grande Opera” (così era chiamata la trasmutazione metallica in alcuni
manoscritti antichi d’alchimia) sarebbe incisa sugli stipiti, sul frontone, sull’architrave e sulla soglia
della famosa porta.
La leggenda vuole che il marchese avesse ospitato, per una notte, l’alchimista Francesco Giuseppe
Borri, che era in grado di saper compiere la “Grande Opera” utilizzando un tipo di erba.
Dopo aver lavorato tutta la notta, la mattina seguente l’alchimista era sparito, lasciando per
testimonianza un mucchietto di oro purissimo ed un foglietto pieno di formule magiche, che il
marchese ed altri illustri alchimisti non riuscirono né ad interpretare né tantomeno ad utilizzare.
Il marchese rimase così deluso che decise di far riprodurre sulla porta tutti i simboli e la formula,
affinché altri più fortunati e sapienti studiosi della materia potessero trovarne la soluzione.
La Porta Magica, che è senza dubbio una delle testimonianze alchemiche più importanti del mondo, è
sovrastata da un disco marmoreo sul cui bordo sono incise le seguenti parole: “TRIA SUNT MIRABILIA
DEUS ET HOMO MATER ET VIRGO TRINUS ET UNUS”, un’esplicita dichiarazione di fede cristiana che
significa “Tre sono le meraviglie: Dio e Uomo, Madre e Vergine, Trino e Uno”.
All’interno di questo disco si trova il Sigillo di Salomone, più noto come Stella di Davide, costituito da
due triangoli equilateri incrociati: nelle pratiche magiche è considerato un potente talismano di
protezione ma in alchimia, in quanto unione tra fuoco e acqua, simboleggia l’equilibrio cosmico.
Sovrapposto al Sigillo vi è la croce dei 4 elementi, simbolo della Terra, sovrapposta ad un cerchio nel
quale si legge “CENTRUM IN TRIGONO CENTRI”, cioè “Il Centro è nel Triangolo del Centro”; all’interno
si può notare un altro cerchio più piccolo con un punto al centro, ovvero l’Oculus, il simbolo
alchemico del Sole e dell’Oro.
Sull’architrave, sotto la scritta ebraica Ruah Elohim (lo Spirito di Dio), vi è la scritta “HORTI MAGICI
INGRESSUM HESPERIUS CUSTODIT DRACO ET SINE ALCIDE COLCHIDAS DELICIAS NON GUSTASSET
IASON”, che vuol dire “Un drago custodisce l’ingresso del giardino magico delle Esperidi e, senza
Ercole, Giasone non avrebbe gustato le delizie della Colchide”.
Sugli stipiti vi sono sei iscrizioni situate sotto altrettanti segni dei Pianeti, associati ai corrispondenti
metalli:
- in alto a sinistra Saturno-Piombo: “QUANDO IN TUA DOMO NIGRI CORVI PARTURIENT ALBAS
COLUMBAS TUNC VOCABERIS SAPIENS” (Quando nella tua casa neri corvi partoriranno bianche
colombe allora sarai detto saggio);
- in mezzo a sinistra Marte-Ferro: “QUI SCIT COMBURERE AQUA ET LAVARE IGNE FACIT DE TERRA
COELUM ET DE COELO TERRAM PRETIOSAM” (Chi sa bruciare con l’acqua e lavare con il fuoco fa
della terra cielo e del cielo terra preziosa);
- in basso a sinistra Mercurio-Mercurio: “AZOT ET IGNIS DEALBANDO LATONAM VENIET SINE VESTE
DIANAM” (Quando l’azoto e il fuoco imbiancheranno Latona, Diana verrà senza veste);
- in alto a destra Giove-Stagno: “DIAMETER SFERAE THAU CIRCULI CRUX ORBIS NON ORBIS
PROSUNT” (Il diametro della sfera, il thau del circolo, la croce del globo non giovano ai ciechi);
- in mezzo a destra Venere-Rame: “SI FECERIS VOLARE TERRAM SUPER CAPUT TUUM EIUS PENNIS
AQUAS TORRENTUM CONVERTES IN PETRAM” (Se farai volare la terra sopra la tua testa, con le
sue penne convertirai in pietra le acque dei torrenti);
- in basso a destra Sole-Oro: “FILIUS NOSTER MORTUUS VIVIT REX AB IGNE REDIT ET CONIUGIO
GAUDET OCCULTO” (Nostro figlio morto vive, torna re dal fuoco e gode dell’accoppiamento
occulto).
Sulla soglia vi è la scritta “SI SEDES NON IS” (Se siedi non vai), frase palindroma (che si può leggere
anche da destra a sinistra) che diventa “SI NON SEDES IS” (Se non siedi vai).
Sotto, ai lati di un segno complesso, “EST OPUS OCCULTUM VERI SOPHI APERIRE TERRAM UT
GERMINET SALUTEM PRO POPULO” (È opera occulta del vero saggio aprire la terra affinché generi
salvezza per il popolo).
Nonostante varie interpretazioni la Porta Magica, chiamata anche “Alchemica” o “dei Cieli”, rimane un
grande mistero, più che mai irrisolto dopo oltre tre secoli.
Oltre alla Porta Magica, all’angolo nordoccidentale dei giardini di Piazza Vittorio Emanuele II si trovano
i cospicui resti del “Ninfeo di Alessandro Severo”, fatto costruire dall’Imperatore come “mostra” di una
diramazione dell’Aqua Iulia (uno degli acquedotti romani).
Raffigurato in monete commemorative del 226 d.C., il Ninfeo viene ricordato nella “vita”
dell’Imperatore come Oceani Solium, cioè Fontana di Oceano, a causa di una statua che ne costituiva
l’ornamento centrale.
Nel Rinascimento assunse il nome di “Trofei di Mario” a causa dei due rilievi marmorei di età
domiziana, rappresentanti trofei, che in origine non appartenevano alla mostra, ma furono in essa
riciclati da un monumento che avrebbe dovuto celebrare le campagne germaniche e daciche di
Domiziano dell’anno 89: nel 1590, Sisto V li fece trasportare in Campidoglio e collocare sulla balaustra
della Cordonata.
La costruzione a pianta trapezoidale del Ninfeo era volta verso occidente ed era articolata su tre piani:
due comprendevano ambienti vari e canalizzazioni, mentre il terzo doveva presentarsi come un grande
arco trionfale sovrastato da un attico sormontato da una quadriga imperiale e da altre statue (come
raffigurato nelle monete).
Distrutta la parte superiore, rimase la parte inferiore costituita da una nicchia centrale semicircolare
che ospitava una statua (forse quella di Oceano) ed era fiancheggiata da due archi aperti, all’interno
dei quali erano collocati i due trofei marmorei detti poi Trofei di Mario.
Anteriormente una vasca raccoglieva l’acqua che ricadeva dall’alto. La costruzione è tutta in opera
laterizia e doveva essere interamente rivestita di marmo.
Percorrendo il giardino, possiamo vedere una fontana che ha al centro un gruppo marino di tritoni,
delfini ed un grosso polipo: è il famoso “fritto misto”, come i romani avevano ribattezzato il gruppo
scultoreo che Mario Rutelli (bisnonno di Francesco Rutelli) aveva scolpito per la Fontana delle Najadi,
prima che venisse sostituito dall’attuale gruppo del “Glauco”, sempre opera del Rutelli.
All’angolo tra Piazza Vittorio Emanuele II e Via Napoleone III, un po’ nascosta, sorge l’antica Chiesa di
Sant’Eusebio, nata, secondo la tradizione, sulla casa del martire Eusebio, condannato dall’Imperatore
Costanzo II a morire di inedia nella sua stessa casa.
L’abitazione, trasformata in “titulus Eusebii” da Papa Liberio sin dal IV secolo, venne adattata a chiesa
da Papa Zaccaria nel 750.
Dopo vari restauri eseguiti durante i pontificati di Adriano I, Leone III e Gregorio IV, fu ricostruita sotto
Onorio III e Gregorio IX, quando fu dedicata ai Santi Eusebio e Vincenzo.
Alla chiesa fu annesso in seguito un convento, affidato durante il Medioevo ai monaci Celestini, che lo
fecero ampliare nel 1588; l’aspetto attuale si deve alla ricostruzione della facciata effettuata nel 1711
da Carlo Stefano Fontana ed al rifacimento degli interni ad opera di Niccolò Picconi nel 1759.
Oggi la chiesa risulta sopraelevata a causa dei lavori di sbancamento della Piazza: una scalinata,
chiusa da un cancello in ferro, conduce al porticato a cinque arcate sorrette da pilastri con lesene, al
di sopra del quale cinque finestre con cornici e timpani si aprono fra lesene sormontate da capitelli
ionici.
Sopra ancora l’iscrizione dedicatoria datata 1711 e quindi la cornice che, in corrispondenza
dell’arcata centrale, si apre ad arco racchiudendo uno stemma.
La balconata che chiude il prospetto è ornata da statue di Santi e da due angeli inginocchiati, mentre il
timpano della chiesa, sormontato dalla grande croce metallica, risulta leggermente arretrato rispetto
alla facciata.
L’interno è a tre navate, la centrale alta e ampia, divisa da archi su pilastri, con una sobria decorazione
a stucchi bianchi e dorati; l’affresco sulla volta della navata centrale raffigura la “Gloria di
Sant’Eusebio”, opera del 1759 di Raffaele Mengs, e guardando bene possiamo notare un curioso
particolare: uno degli angeli è in realtà un’angiolessa, con le sembianze della donna amata dall’artista.
Di notevole interesse è il cinquecentesco coro ligneo con gli stalli ed il leggio in noce intagliata a figure
grottesche, unico esempio a Roma.
Dalla sagrestia è visibile l’elegante chiostro su due ordini di arcate separate da paraste, al centro del
quale è situata una fontana.
Nel monastero annesso alla Chiesa ebbe sede una delle prime stamperie romane, quella di Giorgio
Lauer, nella quale vennero stampate le opere di San Giovanni Crisostomo annotate da Francesco
Aretino.
Ogni anno dinanzi alla chiesa, il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio Abate, si svolge la caratteristica
benedizione degli animali, qui trasferita, per motivi di traffico, dalla vicina chiesa di Sant’Antonio
Abate.
Settembre 2024 © Maria Teresa Protto
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