EDITORIALE DELLA FONDAZIONE
Il mese di giugno è appena trascorso e a Roma è stato festeggiato uno dei Santi più importanti: il 24
giugno è stata la festa di San Giovanni.
Questa festa è quella che sento maggiormente vicina, ricorda la mia infanzia: essendo nata nel
quartiere di San Giovanni ricordo le bancarelle sulla piazza davanti alla Basilica, dolci e giochi che
attiravano la curiosità di noi bambini… quando bastavano queste cose a farci divertire.
Giovanni Battista è l’unico Santo, insieme alla Vergine Maria, di cui si celebra il giorno della nascita
terrena, il 24 giugno, e quello del martirio, il 29 agosto.
Tra le due date, però, quella più usata per la venerazione è la prima.
La leggenda narra che nella notte tra il 23 e il 24 giugno proprio sui prati di Piazza San Giovanni in
Laterano si aggirino le streghe e i demoni chiamati a raccolta dai fantasmi di Erodiade e di sua figlia
Salomè, dannate per aver causato la decapitazione del santo, e che streghe e demoni vadano quindi
in giro per la città a catturare le anime prima di proseguire per Benevento, città delle streghe per
eccellenza.
Era quindi essenziale ricorrere a rituali magici e forme di esorcismo.
Prima di uscire per andare a festeggiare la notte di San Giovanni, chiamata appunto “la notte delle
streghe”, tra i vari riti da fare c’era quello per evitare che le streghe entrassero in casa: fuori delle porte
veniva appesa una scopa di saggina e messo a terra un barattolo di sale, oppure due scope messe in
croce e delle teste d’aglio.
Si raccontava che le streghe per entrare dovessero prima contare tutti gli zeppi della scopa o i grani del
sale e se sbagliavano dovevano ricominciare da capo: per fare ciò, sarebbero state impegnate tutta la
notte!
La gente, dopo aver benedetto i letti e la porta di casa, partiva da tutti i rioni della città, al lume di torce
e lanterne, e si concentrava a Piazza di San Giovanni in Laterano per pregare il santo e chiedere
intercessioni: si accendevano falò per scacciare le forze occulte, si pregava e si facevano grandi
mangiate di lumache nelle osterie e nelle baracche allestite sulla piazza, si ballava, si cantava e poi si
compravano le erbe dai venditori ambulanti.
Ma perché si mangiavano proprio le lumache?
Semplice: perché erano facili da trovare dopo i temporali primaverili ed era pertanto tradizione
acquistarle per consumarle in piazza o cucinarle in casa e portarle per condividerle con gli amici.
L’altra antica usanza, ancora oggi da tanti seguita, riguarda l’uso di alcune erbe, le cosiddette erbe di
San Giovanni, necessarie per la preparazione dell’acqua di San Giovanni: il 23 giugno si deve andare in
campagna o nei boschi per raccogliere le botaniche tipiche della zona, come iperico, salvia, timo,
rosmarino, maggiorana, lavanda, assenzio, alloro, finocchietto selvatico, malva, verbena, rosa, menta,
camomilla, passiflora e sambuco.
Quanto raccolto, va immerso in una bacinella piena d’acqua ed esposto all’aperto, sotto la luce della
luna, durante la notte tra il 23 e il 24 giugno, affinché riceva anche la rugiada dell’alba: la mattina, si
utilizza l’acqua per lavarsi le mani e il viso in segno di rinnovamento e con l’obiettivo di propiziare la
fortuna come all’inizio del nuovo anno; se avanza, si regala l’acqua ad un amico.
Ma non solo: i poteri apotropaici della rugiada, cioè i poteri che servono ad allontanare o ad annullare
un influsso magico maligno, sono i motivi per cui si è iniziato a raccogliere ed a preparare l’acqua di
San Giovanni sin dall’antichità, in quanto si diceva che i suoi influssi benefici avrebbero contribuito a
tenere lontane siccità e tempeste fatali alle coltivazioni.
Il rituale dell’acqua è stato poi incorporato nelle celebrazioni di San Giovanni Battista, che proprio in
questo ambito ha trovato un ruolo per il credo cattolico.
Per quanto riguarda l’iperico, detto anche Erba di San Giovanni, che fiorisce proprio in prossimità del
24 giugno, viene utilizzato per preparare un olio utile per le scottature solari e gli eritemi, con proprietà
cicatrizzanti e antispasmodiche.
La tradizione popolare legata alla magia dei secoli passati lo considerava efficace per allontanare gli
spiriti maligni, tanto che i popoli del Nord appendevano dei mazzetti di iperico nelle case per
proteggerle dalle energie negative.
L’iperico era impiegato come un vero e proprio amuleto protettivo, un portafortuna, come narra anche
Roberto La Paglia, autore del libro Le erbe magiche.
Ma è importante acquistare anche l’aglio: c’è un famoso proverbio che dice che “Chi non compra aglio
a San Giovanni, è povero tutto l’anno”!
Alcune di queste erbe erano anche utilizzate per cucinare le lumache.
Si riteneva che i quattro cornini delle lumache potessero essere fonte di discordia e quindi mangiare le
lumache, le cui corna rappresentavano preoccupazioni, significava distruggere le avversità.
L’altro significato invece era che mangiare le lumache era un segno di buon augurio e quindi
consumarne in abbondanza scongiurava ogni disgrazia.
Le lumache erano condite con aglio, sugo e peperoncino e, per migliorarne la digeribilità, venivano
accompagnate da un buon bicchiere di vino bianco dei Castelli e si cantavano serenate e stornelli.
La partecipazione popolare era massiccia, oltre a mangiare e bere in abbondanza si faceva rumore
con trombe, trombette, campanacci, tamburelli e petardi di ogni tipo per impaurire le streghe, affinché
non potessero cogliere le erbe utilizzate per i loro incantesimi.
Nel ‘900, l’appuntamento notturno in Piazza San Giovanni con il tempo divenne un festoso incontro in
cui si portava del cibo in un “callaro”, ovvero un enorme pentolone, tra cui le lumache al sugo dal
“forte sapore allegorico”.
Un’altra particolarità era che durante la Festa di San Giovanni venivano aperti al pubblico i bagni del
Tevere e in molti si facevano il bagno nel fiume per godere delle proprietà benefiche di cui si pensava si
arricchissero le acque in quella notte magica.
Inoltre, era permesso bagnarsi nella fontana di San Giovanni poiché si pensava che durante il giorno
della sua festività il santo avrebbe regalato maggiori miracoli rispetto al resto dell’anno e donasse
particolari virtù.
La festa si concludeva al sorgere del sole con lo sparo del Cannone da Castel Sant’Angelo, che era il
segnale di inizio della messa celebrata dal Papa alla Basilica di San Giovanni, al termine della quale
dalla loggia venivano gettate monete d’oro e d’argento, scatenando così la folla presente.
Il pensare alle lumache come cibo mi ha ricordato Lumacamente, il marchio con cui la mia amica
Chiara, insieme ad Alessandra, ha creato prodotti cosmetici utilizzando, come in auge da qualche
anno, la bava di lumaca.
Le proprietà benefiche della bava di lumaca è un rimedio che affonda le proprie origini nella storia più
remota: già nell’antica Grecia, Ippocrate ne sfruttava le proprietà decongestionanti e
antiinfiammatorie per lenire le irritazioni e le infiammazioni della pelle.
Anche Plinio il Vecchio, il naturalista romano autore dell’enciclopedia Naturalis Historia, racconta
quanto sia efficace il muco della lumaca per trattare ascessi cutanei e ulcere.
Nel Libro XXX, dove parla del confine tra magia e medicina, spiega altri rimedi utili per guarire da
alcune malattie: le chiocciole, suggerisce, se cotte e non lavate, si possono pestare e aggiungere al
vino passito per alleviare il mal di gola e il catarro, mentre sotto forma di sciroppo, oltre a sciogliere il
catarro e facilitarne l’eliminazione, aiuta a calmare la tosse.
Dalla Grecia al Medioevo, la bava di lumaca è stata ampiamente usata anche nel campo medico per
curare problemi di stomaco, come gastriti e ulcere peptiche, e per cicatrizzare le ferite e arrestare le
emorragie.
Ma fu verso la metà degli anni ‘80 che, in Cile, la famiglia Bascuna notò che tutti coloro che allevavano
questi animali per il mercato alimentare possedevano una pelle straordinariamente soffice e vellutata,
e, come fu dimostrato dalle analisi, tutto per via della bava prodotta dalla più comune specie Helix
Aspersa, bava che nel giro di pochi anni è diventata una componente importante di molte creme e
pomate, che hanno il potere di rendere la pelle più tonica e idratata, regalandole un aspetto fresco e
disteso.
Ma tornando a Lumacamente, fatalità entrambe le ragazze vengono dalla ristorazione.
Durante il Covid, fu Alessandra ad avere l’idea di realizzare un allevamento di lumache, subito
approvato da Chiara, primo perché volevano creare un qualcosa di più tranquillo e rilassante a
contatto con la natura e secondo per avere un obiettivo comune con risultati che le avrebbero
premiate contando solo sulle loro forze.
Dopo tre anni di studi presso allevamenti e filiere, girando dal Nord al Sud Italia, carpendo
informazioni su come lavorare la terra, costruire recinti, seminare anche in base alle fasi lunari, capire
quanta acqua fosse necessaria per far crescere le piante fino all’immissione delle chiocciole, ecco
realizzato il loro sogno: usando la metafora della chiocciola, dopo aver vissuto una vita frenetica,
lentamente ma caparbiamente, nonostante tanti ostacoli anche burocratici, con la collaborazione di
laboratori che analizzavano la bava sin dall’inizio della produzione, sono arrivati i primi risultati utili,
facendo sé stesse da cavie per arrivare infine alla vendita di una linea cosmetica al momento di soli
quattro prodotti che hanno riscosso un buon successo e che le sta spronando, grazie ai feed back più
che positivi, ad ampliare la gamma di prodotti non solo per il viso ma anche per il corpo e i capelli.
Perché ho voluto parlare di loro?
Perché da brave animaliste, oltre ad una macchina particolare cruelty free, estraggono la bava anche
manualmente, grazie ad un movimento particolare che aiuta la secrezione della schiuma che serve
non solo a proteggere la chiocciola da sé stessa quando striscia a terra ma anche a protezione dai
predatori.
Vorrei, concedetemelo, pensare che anziché credere nell’usanza di mangiare le lumache per
proteggersi dalle avversità e dalle disgrazie, ci si possa spalmare una crema su tutto il viso e su tutto il
corpo: forse non sarà più una panacea per il nostro spirito, ma sicuramente lo sarà per il nostro fisico!
Luglio 2024 © Maria Teresa Protto
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