EDITORIALE DELLA FONDAZIONE
Il 20 Maggio 1999, in una Roma apparentemente tranquilla, il giurista Massimo D’Antona veniva assassinato dalle Nuove Brigate Rosse mentre si recava a piedi verso l’università. La sua figura, tuttavia, non è rimasta confinata alla tragica cronaca di quel giorno. Docente di Diritto del lavoro, consulente del Ministero del Lavoro e consigliere giuridico della Presidenza del Consiglio, D’Antona è stato uno degli architetti più raffinati del dialogo tra diritto, politica e riforma sociale.
Il ruolo nelle riforme del lavoro degli anni ’90
Negli anni precedenti la sua morte, D’Antona aveva assunto un ruolo chiave nell’elaborazione delle politiche del lavoro durante il governo D’Alema, collaborando con il ministro Antonio Bassolino. La sua visione era orientata a una modernizzazione del sistema lavorativo italiano, attraverso l’introduzione di strumenti che facilitassero l’accesso al lavoro e regolamentassero in modo più efficiente le nuove forme contrattuali, mantenendo comunque fermo il principio della tutela dei lavoratori. Era uno dei promotori del cosiddetto "Patto sociale", teso a conciliare competitività delle imprese e diritti dei lavoratori.
Una voce critica e costruttiva
Massimo D’Antona era noto per la sua capacità di conciliare rigore accademico e apertura al confronto sociale. Non era un ideologo, ma un giurista pratico e dialogante, capace di tradurre i principi costituzionali in riforme concrete, senza cedere a populismi né a rigidità dogmatiche. Le sue proposte spesso incontravano critiche sia dalla sinistra più radicale, che temeva una svendita dei diritti, sia dalla destra, che le considerava troppo vincolanti. Ma lui continuava a cercare un equilibrio difficile: quello tra la protezione del lavoro e le esigenze di flessibilità di un mondo in trasformazione.
L’attentato e la rivendicazione delle Nuove Brigate Rosse
La mattina del 20 Maggio 1999, D’Antona fu colpito da numerosi colpi di pistola davanti al civico 22 di via Salaria, a pochi passi dalla sua abitazione. L’attentato fu subito rivendicato da un gruppo che si rifaceva all’ideologia delle Brigate Rosse, le stesse che ventuno anni prima avevano ucciso Aldo Moro. La motivazione? Il ruolo centrale che D’Antona ricopriva nell’ammodernamento del diritto del lavoro e nel confronto con le parti sociali. Fu un attacco diretto alla democrazia e al tentativo di riformare il Paese attraverso il dialogo.
Una memoria ancora viva nelle istituzioni
Nel 2001, due anni dopo l’assassinio, la Camera dei deputati pubblicò una raccolta di scritti e interventi di D’Antona, riconoscendone il valore culturale e politico. Ogni anno, il 20 Maggio, viene ricordato con eventi accademici, cerimonie istituzionali e iniziative universitarie, specialmente presso l’Università “La Sapienza” di Roma, dove insegnava. Il suo nome è scolpito su targhe commemorative, ma soprattutto nel percorso delle riforme italiane del lavoro.
Un’eredità che sfida il presente
A oltre vent’anni di distanza, il pensiero di Massimo D’Antona rimane un punto di riferimento per chi studia e pratica il diritto del lavoro. Il suo approccio pragmatico, la capacità di coniugare innovazione e giustizia sociale, e la sua dedizione al bene pubblico sono ancora oggi modelli da seguire. In un’epoca in cui il mondo del lavoro è nuovamente al centro del cambiamento – tra smart working, intelligenza artificiale e nuove disuguaglianze – il suo insegnamento ci invita a cercare soluzioni condivise, lontane dalla violenza e vicine ai diritti.
21 Maggio 2025 © Redazione PANTAREI Fondazione Premio Antonio Biondi
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