EDITORIALE DELLA FONDAZIONE
Dopo aver parlato della Garbatella, come non andare a visitare un altro quartiere bizzarro e surreale
che è al di fuori dei tour turistici ma anche non conosciuto alla maggior parte dei romani?
Più che di quartiere si può parlare di un isolato: nel Quartiere Trieste, tra la Salaria e la Nomentana, a
pochi passi da Via Tagliamento – strada famosa per la storica discoteca Piper – si trova il Quartiere
Coppedè: con i suoi villini dalle forme strane e un po’ fiabesche, sembra di essere in un’altra
dimensione.
L’isolato è compreso fra Via Tagliamento, Via Arno, Via Ombrone, Via Serchio, Via Reno, Via Clitunno e
Via Adige fino a Piazza Trasimeno.
Poco lontano dal centro storico, composto da 18 palazzi e 27 edifici tra palazzine e villini, ci si aspetta
di incontrare da un momento all’altro fate, personaggi mitologici, ma potrebbe anche sembrare di
stare sul set di un film horror…
Ma oltre ad avere un fascino per la loro architettura, le costruzioni hanno anche un valore simbolico
particolare, di natura esoterica, e vedremo il perché…
Nel 1915 la Società Anonima Edilizia Moderna incaricò l’architetto Luigi (Gino) Coppedè di realizzare
un Quartiere che collegasse i Parioli con i nuovi (all’epoca) Quartieri Trieste e Salario, con abitazioni
pensate per la borghesia e per ospitare delle ambasciate.
Perché Gino Coppedè?
Nato a Firenze, il padre famoso scultore ed ebanista, il fratello Adolfo architetto apprezzato per lo stile
in voga a quei tempi (ideò il Palazzo della Borsa a Piazza De Ferrari a Genova), Coppedè stenta a
trovare lavoro dopo gli studi proprio per il suo genio eclettico ed innovatore, contrario alle mode del
momento.
Quando incontra il ricco sir Evan Mackenzie, uno scozzese naturalizzato italiano, nato anch’esso a
Firenze dopo che la sua famiglia si era trasferita in Italia, amante dell’arte fiorentina del Medioevo, del
periodo rinascimentale e del ‘500, la vita di Coppedè cambia definitivamente.
Mackenzie fa l’assicuratore per i Lloyd’s di Londra ma poi fonda lui stesso l’Alleanza Assicurazioni:
quando conosce Coppedè si instaura una solida amicizia e sapendo che è senza lavoro gli
commissiona addirittura un castello, che nascerà sul terreno nella zona di Castelletto, a Genova,
dopo aver demolito il rudero preesistente.
La fama del giovane architetto arriva a Roma e fu lo stesso sindaco Ernesto Nathan, che rivoluzionerà
anche grazie a lui la capitale, a chiamarlo: il piano regolatore dell’ingegnere Edmondo Sanjust di
Teulada prevedeva l’ampliamento urbanistico in una zona che era ancora campagna, dedicata al
nuovo ceto medio-borghese di Roma.
Alla richiesta di dare un’impronta romana a questo nuovo quartiere, Coppedè riuscì appieno
nell’impresa, coniugando lo stile liberty con l’Art Decò, ma anche con il gotico, il barocco, con
elementi medievali, inserendo cornici e modanature tipiche dell’architettura della Roma imperiale,
arrivando a ricreare un arco che ricorda gli archi di trionfo.
Ma le particolari caratteristiche, all’epoca innovative, di queste case furono per prima la presenza di
un garage, anche se di auto in quel periodo ce ne erano veramente poche: Coppedè era convinto che
da lì ad un secolo tutti avrebbero posseduto un’auto.
Altre caratteristiche di queste abitazioni erano: l’acqua corrente ed il bagno in casa, cose che poco più
di 100 anni fa non c’erano; avere 3 camere ed in particolare non avere più la camera per la servitù,
perché la famiglia moderna non doveva avere più il personale di servizio convivente, ma, finito il
lavoro, i domestici se ne dovevano tornare a casa propria; per ultimo, dovevano avere il riscaldamento
autonomo ed il citofono.
Ma bisogna ricordare che Ernesto Nathan, oltre ad essere il sindaco di Roma, è il Gran Maestro del
Grande Oriente, ovvero della Massoneria, a cui aderisce la società che conta.
Pur non avendo la certezza che Coppedè vi aderì, nel vedere il Quartiere da lui creato si può dedurre
che ne fu un profondo conoscitore e che disseminò le sue opere di simboli esoterici.
Tornando alla fase storica, nel 1915, da pochi decenni era avvenuta l’unificazione d’Italia, e si tendeva
ad enfatizzare l’idea della Patria Unita, la glorificazione dell’imponente passato italiano: ecco i
richiami alla Roma Imperiale, allo stile medievale, al barocco, ma anche a grandi famiglie come i
Barberini con il simbolo delle api o ai gigli come riferimento alla Firenze dell’artista, e per ultima l’Art
Nouveau, lo stile di cui Coppedè fu una delle massime espressioni.
Ci fu un momento di crisi nella vendita dei palazzi: sembra che Coppedè nel modificare i piani iniziali
per inserire in maniera palese dei simboli massonici, perse i fondi di finanziatori anch’essi legati alla
Massoneria: l’architetto decise allora di vendere sulla carta, una vera novità per l’epoca, accogliendo i
probabili acquirenti in cantiere e mostrando i progetti e le case già realizzate.
Fu così che in due anni vendette tutte le costruzioni in atto.
Purtroppo, l’artista non poté terminare il suo lavoro: dopo un intervento di calcoli renali, ebbe una
infezione polmonare che lo portò a soli 62 anni alla morte nel 1927: subentrò l’architetto Paolo Emilio
André per portare a termine questo ambizioso progetto.
Molti registi hanno utilizzato questo angolo di Roma come location per i loro film: l’arco che sormonta
l’ingresso del palazzo situato al numero civico 2 di Piazza Mincio è una fedele riproduzione di
una scenografia del film del 1914 “Cabiria”; Dario Argento vi girò “L’uccello dalle piume di cristallo”
(film del 1970) e “Inferno” (film del 1980), film del genere horror, visto appunto la suggestione che
incute questa zona; Nanni Loy lo prese come set per “L’audace colpo dei soliti ignoti”, film del 1959
con Vittorio Gassman, così come Nando Cicero vi girò la commedia italiana del 1973 “L’ultimo tango a
Zagarol”.
Altri film girati nel quartiere sono stati nel 1976 le sequenze iniziali del film “Il presagio” di Richard
Donner, il film noir del 1974 “Il profumo della signora in nero” del regista Francesco Barilli e “Il cielo in
una stanza” di Carlo Vanzina (1999).
Partiamo da Via Tagliamento: è da qui che si entra nel Quartiere, tramite un grande arco si accede a
Piazza Mincio, il nucleo centrale del Quartiere Coppedè, arco che congiunge i Palazzi degli
Ambasciatori.
Non si farà certamente un’esamina di ogni singolo Palazzo o Villino ma pochi riferimenti saranno utili
per capire che tipo di architettura abbiamo di fronte grazie al genio di Coppedè…
Poco prima dell’arco, nella torre a destra, si trova un’edicola con la statua della Madonna con il
Bambino, sormontata da un lampione: il piccolo Gesù in braccio alla mamma si protende verso chi
passa ed è un gesto sia di augurio sia di protezione.
Sotto l’arco, decorato con numerosi elementi architettonici che hanno la caratteristica di essere
disposti in modo asimmetrico, oltre a due balconi, si trova un gigantesco lampadario in ferro battuto:
dal punto di vista simbolico, il lampadario è un chiaro riferimento alla Massoneria, che è ricerca della
luce, ossia la luce della conoscenza ed è posto all’ingresso come un invito ad entrare.
Il grande lampadario venne ideato all’inizio con le candele, che dovevano essere accese e spente: nei
due balconi laterali abitavano gli addetti all’accensione ed allo spegnimento del lampadario che
avveniva tramite l’oscillazione, grazie ad un sistema di funi, del lampadario da un balcone all’altro.
Quando arriva la corrente elettrica Coppedè, da genio innovatore qual è, fa di tutto per farla arrivare
qui al posto delle candele, anche se le case dei custodi rimangono tali.
Tutto lo stile eclettico di Coppedè lo si può ammirare con un primo sguardo al soffitto all’interno
dell’arco: ci sono le aquile che ricordano Roma, i gigli che ricordano Firenze ed il Rinascimento, al
centro vediamo lo stemma che ricorda il barocco ed il lampadario con simboli di stampo medievale.
Sopra l’arco di trionfo, sulla facciata ci sono i leoni e la Minerva.
C’è uno stemma con palline, che riportano a Firenze, immagini come se fossero affreschi medievali e
sopra vi sono dei cavalli, di cui si vedono le teste.
A sinistra in basso, si nota la firma di Coppedè: sembra che sia una consuetudine per i Massoni
lasciare sempre il loro segno sulle opere.
L’arco, come già accennato, unisce i due Palazzi degli Ambasciatori: notiamo che sulla parte bassa
della torre a sinistra ci sono le api che, se al primo acchito fanno pensare ai Barberini, dal punto di
vista esoterico significano l’importanza del lavoro comune come le api sanno fare insieme ed
alacremente per costruire l’alveare.
Un po’ più in alto, si desume che se tutte le api lavorano bene, passano ad un livello superiore, a cui
arrivano attraverso dei puttini: a questo livello comincia la selezione, ovvero le api diventano più
grosse e sono solo due.
Si è isolati dalla massa ed ecco Minerva, ovvero la conoscenza, lo studio: vuol dire che solo attraverso
lo studio ed il duro lavoro si può migliorare la propria condizione.
Il percorso ai livelli superiori si fa complesso ed irto di problemi, infatti raffigura gli artigli, che
simboleggiano le proprie paure da affrontare e sconfiggere per poi poter arrivare finalmente alla
Vittoria Alata, la libertà.
Tornando ai simboli, al piano stradale viene rappresentata la cornucopia, che da sempre è assimilata
all’abbondanza ed alla fortuna.
La maschera della paura e dell’incertezza al primo piano indica che, quando ci si fa prendere dalla
paura, si tende a non razionalizzare.
Dopo la Minerva, appunto simbolo della conoscenza, ci sono i putti, che sorreggono e portano in
trionfo uno stemma con un gallo.
Sotto il tetto i gigli, che ricordano Firenze, ed in cima l’indicatore del vento con un gallo in ferro
battuto, che nella simbologia massonica è colui che al termine della notte porta la luce del giorno.
Attraversando l’arco e ponendoci dall’altro lato del Palazzo, ritornano i simboli precedentemente
rappresentati attraverso maschere, api e cavalli, ma il messaggio è sempre lo stesso: supera le tue
paure, ovvero le maschere, attraverso il lavoro duro, quello delle api, e sarai vincitore in groppa al tuo
cavallo.
Superato l’arco entriamo in Piazza Mincio, il “salotto” del Quartiere, con al centro il suo “salone
centrale” ovvero la Fontana delle Rane: disegnata personalmente da Coppedè e realizzata nel 1924,
ricorda nel suo stile barocco la Fontana delle Tartarughe di Piazza Mattei al Ghetto.
È costituita da una vasca centrale di pochi centimetri più alta del livello stradale, con quattro coppie di
figure, ognuna delle quali sostiene una conchiglia sulla quale si trova una rana dalla quale zampilla
acqua all’interno della vasca.
Dal centro della fontana si innalza una seconda vasca, di circa due metri di altezza, il cui bordo è
sormontato da altre otto rane: in totale, le rane della fontana sono 12, come 12 sono gli Apostoli o i
segni zodiacali.
Le rane subiscono trasformazioni in ben 12 settimane, da acquatici ad anfibi: esse simboleggiano le
metamorfosi, la rinascita, una connessione tra il mondo acquatico ed il mondo terrestre, tra il mondo
terreno e quello ultraterreno.
Inoltre, la forma a coppa della fontana ricorda la coppa utilizzata da Gesù durante l’ultima cena del
Giovedì Santo ovvero quella del Santo Graal, ecco perché, sedendosi sulla base della Fontana e
sostando intorno al Santo Graal, le rane spruzzerebbero l’acqua della conoscenza.
Tornando al gossip, la Fontana divenne famosa quando lì dentro fecero il bagno i Beatles dopo aver
tenuto un concerto.
I quattro ragazzi inglesi, che all’epoca stavano già spopolando in tutto il mondo, vennero per la prima e
unica volta a Roma per quattro concerti al Teatro Adriano; la prima sera, dopo il concerto, Mina, la
famosa cantante italiana, portò i quattro al Piper, il locale che aveva aperto da pochi mesi e che già era
diventato il tempio della vita notturna romana, ma visto che c’era tanta gente cambiarono idea.
Era il giugno del 1965, un’estate particolarmente calda, tanto da far decidere al quartetto di buttarsi
vestiti in questa fontana!
Sulla Piazza ci sono anche i palazzi simbolo del Quartiere: il Palazzo del Ragno (Via Mincio 4) e il Villino
delle Fate (Piazza Mincio 3).
Il Palazzo del Ragno (così chiamato per via della decorazione che si trova sul portone d’ingresso, cioè
un grosso ragno in una ragnatela), di ispirazione assiro-babilonese, è suddiviso in quattro piani, ha una
torretta ed è caratterizzato da uno splendido balcone con loggia di tipo rinascimentale che si trova al
terzo livello.
Tornando alla simbologia, il ragno è un simbolo di potere ed è legato a quello dell’infinito, al numero 8,
avendo 8 occhi ed 8 zampe; ma che cosa fa il ragno?
Tesse la sua tela, un’opera perfetta su cui lavora con pazienza ed instancabilmente, così come chi
vuole passare ad un livello superiore, quello della conoscenza, con il superamento delle paure, cioè i
leoni le cui teste sono situate ai lati del portone d’ingresso, e la conseguente vittoria: è in alto che
vediamo un dipinto color ocre e nero di un cavallo alato, con un’incudine e tra due grifoni e una scritta
su cui è inciso “labor”, ovvero il lavoro duro e costante per arrivare appunto alla conoscenza.
Sul lato opposto al Palazzo del Ragno si può vedere il Palazzo di Cabiria (ora sede dell’Istituto di
Preistoria): riprende l’opera “Cabiria” di Gabriele D’Annunzio, l’intellettuale italiano in quel tempo più
famoso al mondo, che collaborò con il regista Giovanni Pastrone nell’omonimo film muto del 1914 che
divenne il primo kolossal del mondo.
Viene ricostruita la scena di Cabiria con aquile ed una coda di pavone gigante a rappresentazione
della vanità delle religioni, che offuscano la mente e la allontanano dalla verità, e sopra la coda di
pavone c’è la paura: la religione è un punto fermo, se ti allontani, avrai paura.
Nell’interno dell’arco dell’androne d’ingresso troviamo i cavallucci marini, dei draghi e sotto la volta
dei soli con dei triangoli dentro, a simboleggiare il Signore, ma anche lo stato di illuminazione della
Massoneria.
Campeggia una scritta “Hospes salve”: è il saluto all’ospite, che rappresenta colui che chiede di
essere iniziato.
Infine, il Villino delle Fate, omaggio alle città simbolo d’Italia, Roma, Firenze e Venezia, di cui basta
guardare i decori nella parte alta per vedere a che città è dedicato.
Su via Olona notiamo sulla facciata in alto la rappresentazione di una scena di battaglia con la scritta
“Domus pacis”, una raffigurazione dell’albero della vita e al centro un dipinto che raffigura una
meridiana; infine, la scritta “Domino laetitia praebeo”, ovvero “Offro gioia al padrone di casa”: in senso
riflessivo, però, il verbo latino può avere un altro significato, cioè “Mi offro con gioia al padrone”, frase
che veniva usata nei rituali di iniziazione della Massoneria.
Il Villino delle Fate nasce come una costruzione fantastica e fantasiosa, con le facciate dipinte in stile
medievale, con torrette e logge, e si può pensare di vedersi affacciare da un momento all’altro una
principessa che fugge a cavallo con il suo principe oppure una fata; inoltre, nulla è disposto in maniera
simmetrica, rendendo le abitazioni surreali e fantastiche.
Fra i materiali utilizzati ci sono marmo, laterizi, travertino, terracotta e vetro mentre il cancello è
costruito in legno e ferro battuto.
Le facciate esterne sono particolarissime, finemente realizzate, talmente particolareggiate che in
alcuni punti sembrano quasi essere tessute in seta e ricami d’oro.
Su Via Aterno, il lato sinistro ha una partizione a fasce orizzontali: nella zona bassa presso il primo
piano vi è una decorazione geometrica, mentre al secondo piano vi è un dipinto con figure umane
nelle bifore che richiama i disegni di personaggi famosi della Villa Carducci alla Legnaia di Andrea del
Castagno: vediamo una donna togata, una con il peplo e un’altra con vestiti all’antica, un uomo con
barba, armatura e scimitarra e un altro con spada e cappello.
Su questa via ci sono vari corpi particolari sporgenti, e possiamo notare una quadrifora tra i ritratti di
Petrarca e Dante, un dipinto rappresentante Firenze con la scritta “Fiorenza Bella”, una bifora con un
orologio con motivi zodiacali, una scena di una processione con suore e frati francescani e ad un
angolo una scala d’accesso con un loggiato decorato con angeli.
Sul lato di via Brenta, omaggio a Venezia, ci sono tre corpi sporgenti o a dislivello, una torretta con le
decorazioni raffiguranti il leone alato di San Marco e l’aquila di san Giovanni, e sotto l’aquila si vede
una decorazione rappresentante una processione mentre sotto il leone vi è rappresentato un veliero, e
infine un balconcino con una decorazione che rappresenta la Lupa con Romolo e Remo, chiaro
riferimento a Roma.
Il giorno dell’equinozio di primavera avviene un particolare fenomeno: quando il sole sorge dietro al
Villino delle Fate e quando al tramonto la luce del sole passa sotto l’arco, con un gioco di riflessi fra i
Palazzi della Piazza, la luce va a colpire il getto più alto della Fontana che diventa di colore rossastro,
nuovo riferimento al Graal.
Nel progetto di Coppedè era prevista anche una scuola, che iniziasse dalla materna, poi le elementari
pubbliche ed una scuola superiore: attualmente è la sede del Liceo Scientifico Amedeo Avogadro.
Qui possiamo vedere il mosaico in cui sono raffigurati un gallo, dei dadi ed una coppa: il gallo
rappresenta la giovinezza, i dadi, su cui vi sono rappresentati i primi tre numeri primi, uno, tre e cinque,
vanno identificati con le unità matematiche e la conoscenza ed infine la coppa rappresenta la vittoria,
la riuscita nei propri progetti.
Anche qui un significato ben chiaro: il giovane che aspira alla conoscenza riuscirà nella vita.
In realtà, questi dadi sono la pietra lavorata dalla pietra grezza e rappresentano il primo grado di
iniziazione della Massoneria, il gallo è il portatore della luce iniziatica e la coppa è il Santo Graal, che è
il risultato finale, ovvero la conoscenza.
Da ricordare anche che in una delle villette del Quartiere, in Via Serchio, aveva la sua casa romana il
tenore Beniamino Gigli.
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