EDITORIALE DELLA FONDAZIONE

Non solo San Giovanni in Laterano

Le bellezze nascoste di Rione Monti

Non solo San Giovanni in Laterano

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Un tempo, vicino Porta San Giovanni, si trovava una piccola porta a un solo fornice nello spazio tra due
torri quadrangolari che, attraverso le Mura Aureliane, permetteva il passaggio alla Via Asinaria, strada
secondaria che si collegava alla Via Tuscolana.

Porta Asinaria: questo è il nome della monumentale struttura ancora visibile a pochi passi dalla
Basilica.

Non si sa bene quale sia l’origine del nome, forse appunto dalla Via Asinaria già da tempo esistente,
che poi all’interno della città diventava la Via Santa, via che dalla Basilica di San Giovanni conduceva
alla Basilica di San Pietro: in occasione delle incoronazioni dei nuovi Pontefici nel Medioevo veniva
percorsa dai Papi neo-eletti in processione nella loro duplice veste di Pontefice e Vescovo di Roma.

Oppure, il nome della Via Asinaria potrebbe derivare dalla famiglia degli Asinii che aveva delle
proprietà nella zona, ma anche dall’intenso transito locale di asini destinati al trasporto merci.

Essa risale al periodo della costruzione delle Mura, edificate tra il 270 e il 273 dall’Imperatore Aureliano.
Sembra che la porta venne ampliata quando ci si rese conto che l’intera area compresa tra la Porta
Metronia e la Porta Prenestina-Labicana (oggi Porta Maggiore) non era sufficientemente sicura.

Vennero pertanto erette le torri cilindriche ai lati del fornice, alte circa 20 metri, ancora perfettamente
conservate, e si provvide al rivestimento in travertino tuttora visibile sul lato esterno e all’apertura delle
finestre per le baliste.

In effetti, il restauro curato dallo stesso Aureliano poco dopo l’edificazione del Muro, o da Massenzio
circa un secolo dopo o ancora all’epoca dell’Imperatore Onorio nel 401-402, fece sì che una porta che
era poco più di una posterula diventasse una porta vera e propria, come è successo anche per Porta
Pinciana e per Porta Metronia.

L’Asinaria è la sola, tra le porte antiche di Roma, ad avere contemporaneamente torri cilindriche
affiancate a torri quadrangolari e questo conferma che, come anche altre, era in origine un’apertura di
scarsa importanza, posta al centro di due delle torri a base quadrata che componevano la normale
architettura del muro: una struttura così poderosa ne faceva, di fatto, una fortezza.

All’interno, furono costruiti una controporta e un cortile di guardia, e l’altezza della costruzione venne
quasi raddoppiata, raggiungendo i quattro piani nelle torri e i tre nella corte interna. La porta si
trasformò in una vera e propria struttura difensiva, grazie anche agli adattamenti apportati
successivamente, durante il Medioevo e nel Rinascimento.

Sulla facciata esterna di travertino, una serie di finestre, cinque al primo piano e sei al secondo,
illuminavano gli ambienti posti sopra la porta, utilizzati come camminamenti di ronda e camera di
manovra per il funzionamento della saracinesca che chiudeva il fornice.

Sulle torri quadrangolari sono visibili feritoie e finestre, mentre le torri semicircolari presentano i due
piani inferiori ciechi e i due superiori con cinque finestre arcuate.

Porta Asinaria fu utilizzata dal generale bizantino Belisario nel 536, dagli Ostrogoti di Totila per
l’ingresso ed il saccheggio della città del 17 dicembre 546 con relativa distruzione, secondo i cronisti
dell’epoca, di un terzo della cinta muraria, frettolosamente ricostruita.

Nel 1084 passarono da qui anche l’Imperatore Enrico IV e l’antipapa Clemente III per scacciare l’allora
Papa “legittimo” Gregorio VII, il cui liberatore, Roberto il Guiscardo, mise a ferro e fuoco tutta l’area
lateranense, arrecando gravi danni alla Porta e alle Mura circostanti.

Rimase aperta fino all’epoca di Papa Pio IV (1559-1565), per poi essere definitivamente chiusa nel
1574, a causa dell’innalzamento del livello del suolo circostante di circa 9 metri, e sostituita da Porta
San Giovanni, inaugurata da Papa Gregorio XIII per il Giubileo del 1575 e resasi necessaria per
agevolare il traffico da e per il sud d’Italia.

Rimasto da secoli completamente interrato, il monumento è tornato al suo aspetto originario ma solo
come passaggio pedonale, grazie agli importanti lavori di restauro effettuati dal Comune di Roma negli
anni Cinquanta.

Poco oltre la Piazza di San Giovanni in Laterano dove è allocata la Basilica di San Giovanni, troviamo
un altro luogo conosciuto dai fedeli che ogni giorno visitano Roma: parliamo della Scala Santa, che si
trova all’interno di un edificio risalente alla fine del XVI secolo, chiamato Pontificio Santuario della
Scala Santa, fatto costruire da Papa Sisto IV come nuovo patriarcato del Vescovo di Roma.

Secondo la leggenda, di origine medievale, si tratterebbe della scala del palazzo di Ponzio Pilato che
Gesù salì per raggiungere la sala dove fu interrogato prima di essere crocifisso, e sarebbe stata
trasportata a Roma da Sant’Elena Imperatrice, madre di Costantino I, nel 326.

La Scala Santa è un insieme di 28 gradini di marmo bianco rivestiti da una protezione di legno,
affiancata da altre quattro rampe di scale, due a destra e due a sinistra; nell’edificio troviamo poi la
Cappella di San Lorenzo in Palatio, detta Sancta Sanctorum, cioè la cappella privata del Papa-Vescovo
di Roma fino agli inizi del XIV secolo, che custodisce l’Acheropita Lateranense, cioè la pala d’altare
della cappella papale, e troviamo inoltre l’Oratorio di San Silvestro in Palatio a cui si accede dalla
prima rampa di destra.

A fianco dell’edificio ci sono l’Oratorio del Santissimo Sacramento al Laterano e il Triclinium
Leoninum.

I fedeli la percorrono ancora oggi, una volta l’anno, al fine di ottenere un’indulgenza temporanea dai
propri peccati.

Uscendo dalla Scala Santa un po’ più avanti a destra in Via Matteo Boiardo, al numero 16, si trova un
gioiello della Roma segreta: parliamo di alcune sale di Villa Giustiniani al Laterano, fatte decorare dal
marchese Carlo Massimo nel 1817 dai Nazareni.

Si tratta di una ex villa seicentesca, detta anche Villa Massimo per via dei successivi proprietari, voluta
dal marchese Vincenzo Giustiniani, principe di Bassano e depositario della Camera Apostolica che,
dopo aver acquistato nel 1605 un terreno coltivato a vigna, decise di far erigere su quelle terre una
sontuosa dimora.

Nel 1803 quando passò ai Massimo era tuttavia ancora una casa di campagna, e Carlo Massimo
decise di far affrescare le tre sale sul lato giardino dai Nazareni, un gruppo di pittori romantici tedeschi
giunti a Roma all’inizio del XIX secolo per riportare l’arte sulla “via della verità”.

Stimolati inizialmente dalle teorie artistiche di Wilhelm August von Schlegel e di Wilhelm Heinrich
Wackenroder, i Nazareni si ribellarono al classicismo accademico ritornando ad un’arte basata più
sulla religione e sul patriottismo, con uno stile arcaico delineato da una forte linearità, da colori
“crudi” e pennellate uniformi.

Lo stile, inoltre, si caratterizzò come una ricomposizione formale, quasi filologica, dello stile degli
artisti quattrocenteschi italiani, da Beato Angelico a Filippo Lippi, Luca Signorelli, Perugino e
soprattutto al primo Raffaello.

Alcuni artisti del gruppo si rifecero anche a Dürer e all’antica pittura tedesca.

Le stanze sono decorate con scene epiche tratte dalle opere di Dante (la Stanza di Dante, con scene
della Divina Commedia), di Torquato Tasso (la Stanza del Tasso, con scene della Gerusalemme
Liberata) e di Ludovico Ariosto (la Stanza dell’Ariosto, con scene dell’Orlando Furioso).

Una quarta stanza avrebbe dovuto ospitare affreschi ispirati alle opere del Petrarca ma non fu mai
realizzata.

Nel 1848 la villa passò ai Lancillotti che vendettero il vasto parco come area edificabile, vista la
continua espansione della città; nel 1885 il monumentale portale del muro di cinta della villa venne
ceduto allo Stato: oggi lo troviamo come ingresso alla Villa Celimontana al Celio.

Sempre rimanendo nella zona, possiamo visitare un vero e proprio gioiello artistico: la Chiesa di Santo
Stefano Rotondo, una delle più antiche chiese cristiane, eretta ai tempi di Papa Simplicio tra il 468 ed il
483.

La chiesa è situata nell’omonima Via di Santo Stefano Rotondo, corrispondente al primo tratto
dell’antica Via Caelimontana, che usciva dalla Porta Caelimontana e si spingeva fino a Porta Maggiore,
proseguendo per le attuali Piazza San Giovanni in Laterano e Via Domenico Fontana.

Questo asse viario era seguito anche dai quattro acquedotti che percorrevano il Celio: l’Aqua Appia,
l’Aqua Marcia, l’Aqua Iulia e l’Aqua Claudia.

La Chiesa fu conosciuta anche come Santo Stefano in Girimonte, Santo Stefano in Querquetulano
(per la sua vicinanza ad un querceto) e infine anche come Santo Stefano in Capite Africae (per la sua
vicinanza all’antico Vicus Capitis Africae).

Se fino al XIX secolo si credeva che la chiesa fosse stata edificata reimpiegando un edificio romano
come le strutture del Macellum Magnum neroniano, durante i lavori di restauro, iniziati a metà degli
anni Novanta, nei sotterranei della chiesa vennero alla luce i resti dei Castra Peregrinorum, ovvero la
caserma delle truppe provinciali distaccate a Roma, sulla quale era sorta la basilica, e un mitreo del II-
III sec. d.C. che conserva parte della ricca decorazione a finte tarsie marmoree.

Sempre nei pressi si trovava la Domus Valeriorum, un’ampia residenza dei Valeri.

La chiesa paleocristiana, la più antica a Roma a pianta circolare, dedicata al diacono e primo martire
Santo Stefano, è situata sul Celio, uno dei più alti tra i sette Colli di Roma ed è stata costruita come
edificio a pianta centrale in tre cerchi concentrici.

Allo stesso tempo, all’interno ha la forma di una croce greca.

Questa costruzione è simile a quella della Basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme. Proprio per
questa forma unica, già nel X secolo si pensava che la chiesa fosse in origine il tempio del pagano
Fauno o del divino Imperatore Claudio, poi consacrato al primo martire in epoca paleocristiana,
analogamente al più famoso e anch’esso rotondo Pantheon nel centro di Roma.

In origine era decorata con mosaici e rivestimenti in marmo. Purtroppo, questa decorazione è andata
completamente perduta. San Gregorio Magno (Papa dal 590 al 604) tenne qui alcune prediche.

Nel VII secolo, Teodoro I, tra il 642 ed il 649, fece trasportare le ossa dei Santi martiri romani Primo e
Feliciano dalle catacombe sulla Via Nomentana. Per i due martiri fu costruita una magnifica cappella
nell’anello esterno della chiesa rotonda, divenendo un luogo di pellegrinaggio molto importante nel
Medioevo.

Nell’Alto Medioevo la chiesa, in gran parte decaduta, fu ristrutturata architettonicamente in grande
stile, anche grazie a Papa Niccolò V (1447-1455), desideroso di vedere il rifiorire della città eterna dopo
l’esilio ad Avignone.

A quest’epoca risalgono le componenti rinascimentali della basilica, come il portale d’ingresso e
l’isola ottagonale dell’altare. Affidò la cura pastorale della Chiesa all’Ordine ungherese dei Padri
Paolini, su impulso del confessore romano e procuratore dell’Ordine Paolino, Kapusi Bálint, che aveva
buoni rapporti con il Papa.

Il monastero accanto alla chiesa divenne la casa madre romana dell’Ordine e il luogo di sepoltura dei
monaci tra il 1454 e il 1580, data in cui finì la gestione da parte dei Padri Paolini ungheresi (in
quell’anno, nel monastero di Roma viveva solo un vecchio eremita!) a causa della sconfitta degli
ungheresi da parte dei turchi a Mohács (1529), della diffusione della Riforma e infine a causa
dell’occupazione di Buda che distrusse anche il vicino centro dell’Ordine a Budaszentlorinc.

Fu grazie al gesuita István Szántó, un ex alunno del Collegium Germanicum, che venne fondato nel
1579 il Collegium Hungaricum sul sito del monastero, progetto appoggiato da Papa Gregorio XIII,
anche se solo un anno dopo, per motivi finanziari, dovette essere unito al Collegium Germanicum,
fondato nel 1552.

La chiesa si trova all’interno di un giardino e vi si accede sotto una delle volte del prolungamento di
Nerone dell’Acquedotto Claudio, che è cinta da mura romane: è preceduta da un portico a cinque
arcate, su alte colonne antiche di granito con capitelli corinzi.

In origine, era costituita da un ambiente circolare, circoscritto da due ambulacri concentrici, formati
da due giri di colonne: l’ambulacro esterno era intersecato dai quattro bracci di una croce greca, alle
cui estremità si trovavano quattro cappelle.

Tra il 523 ed il 529 l’interno di Santo Stefano Rotondo fu sontuosamente ornato con mosaici e lastre
marmoree intarsiate in porfido, serpentino e madreperla; al centro fu inserita una tribuna per la
“schola cantorum” e per la cattedra, la cosiddetta “Sedia di Gregorio Magno”, un antico sedile
marmoreo di epoca romana dal quale si narra che il Pontefice pronunciasse le sue omelie ed al quale,
nel XII secolo, furono tolti la spalliera ed i braccioli: oggi il sedile è collocato a sinistra dell’ingresso.
Nel IX secolo iniziarono però le spoliazioni, alle quali si aggiunsero, nell’847, i danni causati da un
terremoto e nel 1084 quelli causati da Roberto il Guiscardo.

Quando nel 1130 Papa Innocenzo II salì al soglio pontificio, la basilica si trovava in uno stato pietoso,
con il tamburo scoperchiato, gli stucchi in rovina, i marmi asportati, il muro perimetrale in più parti
danneggiato: fu così che il Pontefice fece chiudere, a filo delle colonne, tutte le arcate del secondo
anello (cioè l’Ambulacro), tranne le cinque corrispondenti alla Cappella dei Santi Primo e Feliciano e
le due d’ingresso, inoltre, si deve a lui l’aggiunta del portico di ingresso e le tre grandiose arcate
trasversali dell’area interna, utilizzando due altissime colonne di granito rossastro, allo scopo di
sostenere la copertura pericolante.

A questo periodo risale anche il bellissimo soffitto a cassettoni.

Nel XIV secolo, però, il complesso era di nuovo pericolante e così nel 1453 Papa Niccolò V incaricò
l’architetto e scultore fiorentino Bernardo Rossellino di restaurare tutto il complesso: fu nel 1462 che
la Basilica venne affidata ai monaci ungheresi di San Paolo Eremita, i quali si adoperarono per
annettervi anche un convento, più volte restaurato negli anni seguenti.

Alla fine del 1500 Papa Gregorio XIII consegnò il complesso, ancora una volta lasciato all’incuria, al
Collegio Germanico-Ungarico a cui tuttora appartiene.

La balaustra a otto lati è decorata con dipinti raffiguranti episodi della vita di Santo Stefano di Antonio
Tempesta (1580): le “Storie di Santo Stefano”, la “Strage degli Innocenti” e la “Madonna dei Sette
Dolori”.

Un’altra caratteristica degna di nota di questa chiesa è il Martirologio, il Ciclo del Martirio, una serie di
trentaquattro affreschi lungo la parete periferica della chiesa, eseguiti dal Pomarancio e da Matteo da
Siena (1582): sono rappresentate scene raccapriccianti del martirio di innumerevoli Santi, necessarie
per avvertire i giovani sacerdoti che sarebbero andati come missionari in Paesi lontani dei pericoli a
cui sarebbero andati incontro.

Nella piccola abside della cappella dedicata ai Santi Primo e Feliciano si trova il bellissimo mosaico
bizantino del VII secolo raffigurante “Cristo con San Primo e San Feliciano”: sul fondo d’oro sono
rappresentati i due Santi vestiti con mantelli da viaggio che poggiano su un praticello verde e numerosi
fiori.

Al centro campeggia una grande croce minuziosamente decorata ed ornata di fiorellini e pietre
preziose con sopra Cristo beneficente, anziché crocifisso, riprendendo un’iconografia inconsueta e
molto antica.

Sull’estremità superiore di una croce brillantemente decorata compare una piccola testa di Cristo.

Anche sulle pareti di questa cappella ci sono affreschi del 1568 di Antonio Tempesta.

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foto: Mura Aureliane


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Settembre 2024 © Maria Teresa Protto

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